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sabato 18 maggio 2013

Addio, e grazie per tutto il pesce (non il libro)

Non sono uno che ama i giri di parole, quindi vedrò di andare al sodo: dichiaro ufficialmente che Come Vivere con 20 Sacchi e l' Intelligenza chiude i battenti.

Lo metto per iscritto, e pubblico, nell' ipotesi che, dopo quattro anni, vi sia qualche aficionado che magari ogni tanto controlla gli update, e prima o poi, tra un decennio, si ricorderà dell' ignoto blog che saltuariamente sbirciava, e magari gli gira pure di vedere che fine abbia fatto; o forse lo scrivo un po' anche nei confronti del blog stesso, che, in un modo o nell' altro, mi ha accompagnato per gli ultimi anni, offrendomi un tipo di sfogo diverso dagli altri - chiunque lo abbia seguito un po' avrà capito che i passatempi non mi mancano.
Tutto iniziò quando scrissi, su un sito, la mia personale recensione di Mass Effect. Venendo, come lettore, da una discrete, per non dire colossale, delusione, quale fu la testata Game Republic di allora, che seguivo - non  entro nei dettagli, è una storia lunga e intricata. Per farla breve, stanco di sentirmi preso per il culo da certe recensioni (non solo di videogiochi) che giravano all' epoca, mi dissi "Hasta la revolution", o boiate simili, e cominciai a scrivere i miei pareri, ritenendo che venendo da un diretto consumatore, piuttosto che da una testata, fossero più genuini e affidabili (e tutt' ora, prove alla mano, sono piuttosto convinto della cosa).
Una cosa tira l' altra, mi venne il pallino del blog, e il resto è storia. Curiosità sul nome: è il titolo di un libro fittizio che appare in alcuni numeri di Rat-Man, e mi piacque l' idea: sopravvivere con poco, qui inteso come avere qualche passatempo cercando di spendervi poco.

Ma perché chiudere, se, obiettivamente parlando, sono soddisfatto della forma che il blog ha preso? Senza contare le piccole soddisfazioni, come l' essere tra i primi in Italia a recensire i capitoli 2.0 e 3.0 di Evangelion. Semplicemente perché credo di aver perso lo stimolo nel farlo, e, seppur a malincuore, la facilità con cui sto mettendo una fine a tutto mi sembra il più chiaro segno di come questo capitolo della mia vita si sia chiuso.
Il fatto è che da un po' tempo a questa parte scrivere per 20 Sacchi stava iniziando a perdere la funzione ricreativa e catartica che aveva, e stavo iniziando a viverlo più come un impegno, cosa che, periodicamente, mi pesa. Da un bel pezzo, ormai, ogni volta che prendo un libro o guardo un film, il mio primo pensiero è "Riuscirò a scriverne qualcosa entro la fine del mese?", cosa che mi guastava un po' il piacere di farlo.
Non che lo scrivere abbia smesso di piacermi. Anzi. Questo post non sarà di certo l' ultima cosa che scriverò in vita mia, ma di sicuro per un po' sarò in stallo, visto che, come dicevo, la mia libertà di pensiero va molto a periodi. Quello corrente è schifosamente denso di altri meno dilettevoli, ma più incombenti, che non mi lasciano vivere il blog come lo intendo io, ossia quell' oretta dedicata allo scrivere, che diventa invece l' ansia di cercarmi la mezzoretta per scrivere, e magari in quella mezzora ho voglia di staccare il cervello, invece di sforzarlo ancora (per quanto creativamente vogliate).

Tempo fa, vedendo le prime ravvisaglie di questa sindrome, cercai nuovi stimoli nel presentare domanda per l' inserimento di pubblicità nel blog. Non arricciate i nasi, è quasi un lustro che ci scrivo per la pura e semplice gloria (?), mi è sembrato naturale ipotizzare un modo per alzarci qualche dindino, specie considerando che c' è gente che mette pure il link per le donazioni, così se vuoi li finanzi nel raccontarti i cazzi propri, manco ti stessero facendo un reportage live 24/7 da Kabul. Ma probabilmente rosico io.
Insomma, la sto tirando da mezzora ma ancora non ho esposto la ragione deontologica del mio ritiro (temporaneo, almeno).

Quella che penso sia la più grossa piaga dell' epoca mediatica contemporanea, e quindi di internet, sia il fatto che tutti possano dire la loro. O per meglio dire, che tutti possano dire la loro, ma non abbiano la decenza di capire quando e come farlo. Credo che la possibilità di esprimersi, e di farlo nei confronti di tutto il globo, sia uno strumento meraviglioso, ma da sempre, con preoccupanti picchi da alcuni mesi, ho visto che dire la propria su qualsiasi cosa sia diventato uno sport più che un modo per cercare di migliorare gli altri, e magari sé stessi, nel confronto. Un esempio su tutti? Mi spiace battere su di un evergreen, ma devo a malincuore annoverarmi tra quelli che considerano Facebook quale masturbazione mentale (con le dovute precisazioni). Non posso certo scagliare la prima pietra, in quanto iscritto, ma certi trend sono decisamente tristi, e quello che sfugge a molti, secondo me, è che la possibilità di comunicare con chiunque e in qualsiasi momento, non implichi automaticamente il DOVERLO fare. La consapevolezza di quando bisogna fermarsi, cosa che, magari arrogantemente, suppongo di avere.

Io, anche per i motivi spiegatovi sopra, sento di non aver più nulla di particolare da dire, o quanto meno non mi sento così stimolato dal continuare a darvi i miei pareri su tante piccole cose, come fatto finora. Detto questo, la spirale continua a girare, e se il destino lo vorrà, un giorno ci ritroveremo, su questo o altri lidi.
Un saluto a tutti, e un abbraccio a quanti mi hanno sostenuto, con complimenti o proposte di matrimonio, per quanto fatto finora. Ci si vede nel futuro.


domenica 31 marzo 2013

"Monkey's Uncle", di Jenny Diski

Tra gli innumerevoli autori che hanno trattato nei loro racconti il tema della follia (nelle sue più varie accezioni), la Diski offre un' interessante visione della cosa, mostrandoci Charlotte, una donna che, in seguito al suo crollo nervoso, si ritrova divisa tra due persone: la superficie quotidiana, che cerca di andare oltre il fatto, e che indaga su quali siano le ragioni di questo suo collasso; e una sé stessa rinchiusa nel suo inconscio, specificatamente la sua parte folle.

Questa, in un ambiente dipendente unicamente dalla sua immaginazione, incontrerà una serie di personaggi che saranno i riflessi dei feticci del suo io originale: un orango tango di nome Jenny, facente da guida, quasi uno stregatto in questa privatissima Wonderland; Freud, Marx, Darwin, i pilastri del pensiero moderno, e fondamento dei sogni e delle delusioni scientifico-politiche di Charlotte; e il capitano Robert Fitzroy, antenato di Charlotte con cui sospetta di condividere una pazzia genetica, che la porterebbe, come quasi una tradizione di famiglia, a suicidarsi.

Riuscire a venire a patti con la parte più remota di sé, sia essa nascosta nella più infinitesimale cellula del nostro corpo, non è un compito facile. La Diski, memore della sua personale esperienza con i disturbi mentali, non offre una soluzione che valga per tutti, limitandosi a raccontare la storia di una persona che, in un modo o nell' altro, va avanti. Senza dimenticare, ma imparando a convivere con sé stessa.

sabato 30 marzo 2013

"Borgia", di Alejandro Jodorowsky e Milo Manara

All' alba della morte di Innocenzo VIII, la Chiesa attraversa una profonda crisi, essendo diventata luogo di peccato, e specchietto per i giochi di potere celati dietro di essa.
Salito al soglio pontificio, Rodrigo Borgia, eletto papa col nome di Alessandro VI, sfrutterà ogni mezzo per aumentare la propria presa sull' Italia, e fare in modo che il mondo ricordi per sempre il nome dei Borgia, incluso sfruttare ogni membro della propria famiglia come pezzi della propria scacchiera.

Viaggiando tra realtà e mito, Borgia è una versione ampiamente romanza del periodo che va dalla morte di Innocenzo VIII, a quella di Cesare Borgia, figlio di Alessando VI. Il materiale su cui lavorare non è certo poco, vista la fama della casata, passata alla storia come una delle più sanguinarie, malate di potere, e perverse che abbiano mai solcato il suolo italico.
Prendendo per buone tutte le leggende, più o meno veritiere, che vi aleggiano intorno (come quella dell' incesto di Lucrezia con il padre e il fratello), e rimaneggiando anche i dati storici certi (quali l' età cui Rodrigo divenne papa, qui decisamente più giovane), Jodorowsky ha realizzato una "classica" storia di ascesa e caduta dei potenti, spingendo, però, approfittando del contesto sopra descritto, il piede sul fattore scabroso, sia per la violenza, che per i contenuti sessuali, che anche per l' abbondanza di dettagli ributtanti con cui viene dipinta la Roma di primo '500, lercia e squallida oltre ogni dire.



Questo è probabilmente il maggior freno per molti possibili lettori. Non tanto per il disgusto che certe scene potrebbero provocare ai più impressionabili (sappiamo bene che la repulsione "positiva" è solo motivo d' attrazione verso un fumetto), ma l' abbondanza di scene dal contenuto erotico, specie nei primi numeri (4 volumi in tutto), potrebbero bollare l' opera come un banale porno, degno di una semplice sfogliata in fumetteria per il piacere di vedere ogni scena spinta.
Tale atteggiamento potrebbe portare i più a sorvolare su di un' opera che ha ben più di una freccia per il suo arco, in quanto tutti gli elementi di scandalo sono asserviti alla narrazione, che tramite questo presenta un mondo il cui funzionamento è sempre sotteso al raggiungimento di qualcosa, e nulla si fa per nulla. Le macchinazioni di Rodrigo, e successivamente anche di Lucrezia e Cesare, sono lo specchio di una società in cui la Chiesa non è che uno dei tanti Stati che lottavano fra di loro per il dominio dell' Italia.
A minare quest' ambiziosa premessa narrativa vi sono certi sviluppi che vengono trattati in maniera un po' affrettata, rendendo poco chiaro il passaggio da un punto all' altro. Nulla di eccessivo, comunque.

A coronare il tutto, e a colpire immediatamente l' occhio, sono i disegni di Manara, artista più che mai adatto per un lavoro del genere. Il dettaglio profuso nei disegni, e la certosina ricerca del dettaglio, sono le solite cui l' artista ci ha abituati, offrendoci un vero e proprio "quadro", bellissimo anche per la sua repulsione.


venerdì 29 marzo 2013

Amore e Guerra

Senza neanche rendermene conto, in tre mesi ho visto tre film di Woody Allen. Ed è con piacere che posso dire di non essere deluso da nessuna di queste visioni. Nemmeno dal qui presente Amore e Guerra, forse una delle ultime commedie pure del cineasta americano.

Parodizzando il romanzo ottocentesco (nello specifico quello russo), Allen, come suo solito, cala sé stesso in una realtà che gli è aliena, come dimostrano i suoi occhiali, decisamente anzitempo per l' epoca.
A scandire il ritmo della narrazione è una comicità prevalentemente verbale, con alcuni dei migliori scambi di battute offerti in una commedia, intervallati dalle sconsolate osservazioni del protagonista Boris su quanto si senta inadeguato rispetto ai grandi temi della vita dell' uomo: la vita, la guerra, l' amore e la morte.

Se per una sera volete alleggerirvi la mente, ma allo stesso tempo non fare una figura da coatti proponendo una commedia demenziale, avete trovato quello che fa per voi.

mercoledì 20 marzo 2013

Educazione siberiana

Salvatores continua la sua sfilata di adattamenti librari, prendendo, stavolta, l' omonimo romanzo di Nicolai Lilin come ispirazione. Come fu per Io non ho paura, il regista sceglie una storia dallo spazio geografico ristretto, raccontando una realtà chiusa in sé stessa, che dà all' impianto narrativo un qualcosa di favolistico.
Stavolta il bildungsroman cui assistiamo vede l' educazione alla vita criminale di due giovani membri della comunità siberiana di periferia, in piena cortina di ferro. La vita, il bene e il male, e soprattutto la morte (propria e altrui), tutto è guidato da e osserva le regole dettate dal nonno, come lui le ha probabilmente apprese dal suo.
Un ordine che sembra essere l' unico modo per sopravvivere dignitosamente in un ambiente ostile in cui il clan dei siberiani è solo uno dei tanti tasselli. Un tracciato forse più antico di chi l' abbia inventato, e che prevede, per chi ne fuoriesca, solo una redenzione.

La natura di adattamento del film si tradisce in certi passaggi forse un po' troppo veloci, e certi spunti forse poco sviluppati, ma non so dire sinceramente quanto queste siano impressioni mie o difetti veri del film. Comunque, nel complesso, la trama non è debole, e lascia ben poco in sospeso, per quanto aperto sia il finale.

Il cast presenta molte facce nuove, tutte perfettamente calate nelle parti e pienamente in gradi di reggere dei ruoli non semplici (su tutti Eleanor Tomlinson, personaggio davvero delicato da incarnare), ma a tenere il tutto e a fare da collante è un granitico John Malkovich, il cui volto e i gesti da soli sembrano raccontare una storia intera; poi inizia a parlare, e il quadro è completo.

venerdì 15 marzo 2013

Il Grande e Potente Oz

Se c'è una cosa che mi ha chiarito questo film, è che la differenza tra soddisfazione e delusione sta nelle aspettative che uno si crea.
Approcciandomi a quella fetecchia di Alice in Wonderland, queste furono pesantemente disattese, mostrando un Burton fiacco, che, salvo qualche singhiozzo nella caratterizzazione dei personaggi, non mostrava una briciola di quelle qualità che lo hanno sempre contraddistinto, a cominciare dal comparti visivo, decisamente anonimo e privo di quel senso di grottesco che caratterizza le sue opere più famose (non basta dargli colori smorti per farne un film burtoniano).
A sorpresa, Oz, film verso il quale non provavo la benché minima speranza, si è rivelato una pellicola ben più solida di quanto pensassi, pur con tutti i suoi limiti.

Il rischio, in questi adattamenti patrocinati dalla Disney, è quello di avere in mano lavori piatti, che rispondano alle esigenze non solo di marketing, ma anche di targeting di questa: zero violenza quindi, lieto fine, e morti (se ci sono) edulcorate, e soprattutto trama dall' intreccio prevedibile. Se Alice era infossata in questi problemi, Oz fortunatamente si districa meglio tra di essi, mostrando come Raimi, almeno per la prima parte del film, sia riuscito a tenere in mano le redini della guida creativa della sua creatura, con un comparto creativo, e soprattutto una fotografia che fanno pensare, se non a Spider-Man, addirittura a La Casa.

Partendo da un prologo filmato in bianco e nero e in 4:3 , il transito al mondo di Oz è caratterizzato dai 16:9 e da un' esplosione di colori e forme tale da scatenare nello spettatore la voglia di avventurarcisi. E fino all' intervallo uno può quasi dimenticarsi chi abbia messo i soldi per questo film, tanta è la bontà dei dialoghi, delle situazioni, e del ritmo, al punto da poter quasi immaginare la frenesia di una produzione indipendente.
Non che passata la metà ci sia il collasso, ma è innegabile che, salvo forse un pò sul finale, il brio iniziale sia stato perso, portando a svolti narrativi triti, specie per chi conosca l' opera originale di Baum, di cui questo è il prequel.



Fortunatamente, laddove lo script scarseggia, ci pensano i personaggi a tenere su la baracca. James Franko è un Oz sorprendentemente solido, molto sfaccettato, e per quanto non privo di difetti, accattivante; rimane la curiosità di vedere cosa ne sarebbe uscito se a farlo fosse stato Robert Downey Jr., come pianificato all' inizio, ma contentiamoci.
Al posto dei canonici leone, spaventapasseri, e uomo di latta, abbiamo la scimmia volante, che da sola vale la visione, e altri due comprimari che non svelerò, di cui soprattutto uno è riuscito eccezionalmente bene.
Le streghe rappresentato alti e bassi, con una Mila Kunis forse poco adatta al ruolo, una Michelle Williams soddisfacente, e un' ottima Rachel Weisz.

In definitiva, Il Grande e Potente Oz è un' ottimo entertainment, da vedere a cuor leggero e senza aspettarsi il film della vita.
A questo punto però una riflessione personale. Finora la Disney ha prodotto un sequel per Alice nel Paese delle Meraviglie diretto da Burton, e affidato un prequel per Il Meraviglioso Mago di Oz a Raimi. Cosa ci sarà da aspettarsi in futuro, specie considerando la parabola qualitativa in ascesa?
Personalmente, punterei su di uno spin off su Capitan Uncino messo in mano a Terry Gilliam. Così, per dire.


Purtroppo Hoffman ormai sarebbe vecchiotto per la parte. Ma io avrei già in mente il sostituto...

No?

giovedì 14 marzo 2013

"Pluto", di Naoki Urasawa e Osamu Tezuka

Mentre il mondo piange la scomparsa del robot Mont Blanc, attivista per la pace morto in circostanze misteriose, molte personalità legate in qualche modo alla robotica vengono assassinate secondo uno strano rituale: ogni cadavere ha degli oggetti incastrati alla testa in modo da creare delle corna.
L' ispettore dell' Europol Gesicht, robot a sua volta, prende in mano il caso, ma la spirale assassina sembra stringersi su molti altri robot, incluso lui stesso.

Le riletture di prodotti culturali diventati, più che canoni, veri e propri dogmi del loro paese, è sempre un' operazione delicata. Astroboy, del padre ideale di quel fenomeno che sono i manga, è per questi l' equivalente de I Promessi Sposi per la letteratura italiana.
Pluto nasce da una sua costola, e ne riprende il mito affidandolo a uno dei maggiori autori del fumetto giapponese odierno, quell' Urasawa autore di qualche operetta da quattro soldi. Robette come 20th Century Boys, che presenta quello che forse è l' intreccio più complesso che abbia mai letto, e Monster, osannato a livello mondiale.

Questo per dire che approcciarsi ad un lavoro del genere, dato il curriculum di chi se ne occupa, permette di mettere da parte le ansie per quanto ci si ritrovi tra le mani, e posso dirlo subito: Pluto è un lavoro all' altezza del suo autore, che riconferma d' essere uno dei più grandi tessitori di thriller degli ultimi venti anni, nonché uno dei maggiori storytellers.

Il tratto di Urasawa si riconferma ricco ed espressivo.


Partendo da un' apparentemente semplice caso di serial killer, l' indagine di Gesicht lo porterà scoprire che le radici di questo male arrivano ben oltre le sue vittime, toccando la politica e la storia del mondo, fino a quale sia il valore di una vita, sia essa umana o robotica (suggerendo spesso che le differenze tra queste siano quasi inesistenti).
Con un incedere chiaro e allo stesso tempo intricato, gli otto volumetti del racconto volano via senza che ci si renda conto di quanto si abbia letto, lasciando lo spettatore con la piacevole sensazione della "quadratura del cerchio" che contraddistingue i lavori di Urasawa, ossia la realizzazione della perfezione con cui i tasselli della trama s' incastrano tra di loro, caratteristica propria dei migliori gialli.

Pluto è un' opera allo stesso tempo complessa e facile. Se il lavoro concettuale dietro è notevole, data la rilettura effettuata di un' opera oramai istituzionalizzata nella sua patria, allo stesso tempo è perfettamente accessibile a chiunque non l' abbia letta (come il sottoscritto), e, data la sua brevità rispetto ad altri manga dello stesso autore, rappresenta un ottimo trampolino di lancio per chiunque ne sia neofita, ma fosse interessato ad avvicinarcisi.

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